Se vuoi avere successo, combatti per il tuo sogno.
Fin da quando ero piccola avevo sempre saputo dov’era il mio posto è non era in una squadra di calcio femminile.
Mio padre aveva insistito per iscrivermi a calcio, semplicemente perché lui aveva un passato da calciatore e dal momento che non era riuscito ad arrivare a livelli alti, aveva deciso che avrei dovuto farlo io.
Mi aveva programmato una vita che non volevo fare, e io in qualità di sua figlia, di soli cinque anni, mi sentivo in dovere di dover renderlo fiero di me, nonostante sapessi benissimo che non era quello che volevo.
Ricordo ancora quando tutte le altre ragazze del mio corso come si divertivano, mentre io stavo lì a guardarle, immobile, in mezzo al campo.
L’allenatore mi fischiava e mi urlava, diceva che era soltanto un peso per la squadra, perché non facevo niente e avevo ragione. Mi trovavo nel posto sbagliato.
Verso i sei anni cominciai a lamentarmi con mia madre, del fatto che quello sport non mi rendeva felice e lei mi capiva, ma mio padre no e quindi per i mesi successivi continui ad andare gli allenamenti che tanto detestavo.
Un giorno come tanti, però, mentre una bambina correva a prendere la palla, io rimasi in mezzo al campo, distaccata da tutte le altre a fare ciò che mi veniva più spontaneo al mondo, cominciai a fare delle rovesciata all’indietro, persi il conto di quante ne feci… Mi sentivo nel posto giusto, ogni volta che facevo ciò che mi rendeva felice.
Avevo sempre amato arrampicarmi ovunque, fare capriole, attorcigliarmi su me stessa e attaccarmi alle sbarre.
Non avevo una visione completa di cosa fosse il mondo verso cui volevo andare, ma sapevo che si chiamava ginnastica artistica, ritmica o contemporanea, la differenza era poca per me.
Un giorno quando finì l’allenamento una donna mi fermò fuori dagli spogliatoi, per dirmi di essere un insegnante di ginnastica artistica e di avermi trovata davvero brava, ma che se avessi voluto fare grandi cose avrei dovuto iniziare subito, perché quello è uno sport che si inizia in giovane età.
Quando tornai a casa quel giorno, cominciai a supplicare mia madre e mio padre di lasciarmelo fare.
Li pregai in ogni modo, pensai urlando loro contro che presto sarei stata vecchia e non avrei potuto realizzare i miei sogni e che non avrei mai smesso di combattere per raggiungerli.
Mia madre mi guardò e solo dai suoi occhi capii di aver sempre avuto la sua approvazione.
Mio padre inizialmente era rigido, e non voleva saperne, fino a quando mia madre non gli disse “questa è la sua vita, non la tua”.
Vidi qualcosa nei suoi occhi cambiare e cominciai a pensare che fosse riuscita a convincerlo.
Pochi istanti dopo, mio padre mi guardò e mi domando “è veramente questo che vuoi fare?”
Io con i miei pochi anni, ma con il cuore a 1000 e le idee già chiare, feci i salti di gioia, corsi ad abbracciarlo, senza avergli risposto.
Sentire le sue grandi braccia avvolgermi mi fece capire che io e mia madre eravamo riuscite ad ottenere un sì come risposta. Non vedevo l’ora di cominciare e partivo già col presupposto che sarei stata la migliore del mio corso.
“Se cominci devi farlo seriamente, sarà la tua ragione di vita, sai come prendiamo seriamente lo sport in questa casa” mi disse toccando la punta del naso col dito, sapevo che non scherzava, lui teneva molto allo sport, non era un gioco.
Era un incarico, era un lavoro, un obiettivo da portare a termine. Ed io la pensavo esattamente come lui.
Non avrei deluso mio padre dopo tanti sforzi per convincerlo, non avrei deluso il mio futuro, ma soprattutto non avrei deluso quella piccola bambina che esultava di gioia.
Poco dopo ci fu la mia prima lezione e andò alla grande, gli allenatori mi notarono subito e non dimenticherò mai tutti i complimenti che mi fecero.
Con l’andare avanti però, mi resi conto che erano veramente severi, ogni volta che un esercizio aveva qualcosa che mancava urlavano in un mondo fuori controllo.
Quasi sempre mi ritrovavo a piangere negli spogliatoi, ma all’età di sette anni sapevo già che non sarebbe stato così per sempre, avrei soltanto dovuto aspettare di elevarmi di livello.
Quelle persone non ci sarebbero più state, ma avrebbero semplicemente visto il mio successo ed io l’avrei ringraziata per avermi allenato. E quell’anno imparai una cosa molto importante: ci sono due tipi di persone, quelle che sotto pressione mollano e quelle che sotto pressione danno il doppio di quello che dovrebbero dare. Ed io ero la seconda.
A otto anni cominciai le prime competizioni, in un anno ne feci dieci. Nella prima gara ricevetti il terzo posto, mentre per tutte le altre il primo posto era sempre stato mio.
Mio padre era sempre più contento per me e certe volte lo vedevo spalancare gli occhi, incredulo di quello che stavo riuscendo a costruirmi. Mia madre invece non faceva altro che ripetere che aveva sempre avuto ragione, che il calcio nel mio posto e che io sapevo che cosa era meglio per me.
È passato molto tempo, oggi con i miei 16 anni di età mi sto allenando per i mondiali. Chissà come andranno?
Mi sono scritta tutto in testa, fin dalla prima volta che da piccola vidi una ginnasta eseguire una coreografia a corpo libero in televisione, entrò proprio nella testa che quella persona sarebbe stato il mio modello di vita e sarebbe stata poi lei a voler imitare me.
I vari anni in cui sono stata nel mondo della ginnastica artistica ho visto molte persone mollare, ma in realtà non ci avevano mai creduto.
Se credi davvero in una cosa, non ti interessa di chi ti urla addosso, non guardi quanto sudi, quanto ti fanno male i polsi, le gambe, i muscoli, tu guardi soltanto l’obiettivo finale, ed è arrivare ad essere la migliore di tutte.
I miei genitori mi sostengono, la mia migliore amica mi sostiene e mi capisce perché l’ho conosciuta all’interno di questo mondo.
Sono fiera di me stessa te e lo sarò ogni giorno di più, in qualunque modo vada, perché io non smetterò mai di lottare per i miei sogni.
Se smetti di sognare non rimane niente.
Rebe – Staff Leader di Valore
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